Domenica 21 gennaio 2018, durante l’incontro valevole per la prima giornata di ritorno del campionato regionale di Seconda Categoria girone C tra Zollino e Collepasso, al 43’ del primo tempo si è verificato un episodio che in poche ore è salito agli ordini di cronaca (e probabilmente ci rimarrà ancora per un po’): l’arbitro della gara, il signor Giacomo De Paolis della sezione di Lecce, dopo aver concesso un rigore alla squadra di casa, che vinceva 1-0, è stato aggredito da un calciatore ospite che al momento si trovava in panchina e la partita è stata sospesa.
Ora, il punto non è condannare o meno il gesto, non spetta a me e chiunque altro che non faccia parte di un ordine competente giudicare e moralizzare l’accaduto e innalzare a carnefice un uomo e vittima un altro. La questione che tange di più è il disagio sociale nel quale viviamo, che porta a una sorta di frustrazione i più deboli, i quali si sentono discriminati e abbandonati in quella giungla sociale che è la società oggi. Gli stadi purtroppo rappresentano da sempre una sorta di zona franca dove potersi sfogare dopo una settimana passata a subire umiliazioni da chicchessia: datore di lavoro, prete, politico menefreghista, e così via, sempre pronti a predicare bene e razzolare male (non tutti, sia ben chiaro), non facendo altro che aumentare un malcontento che solo l’ulteriore menefreghismo può contrastare.
Non è un caso quindi se poi la domenica, giorno sacro per eccellenza, diviene un momento di assurdità, come non è un caso se i luoghi prefissati sono, purtroppo, sempre gli stadi. E così sentiamo parlare, in maniera troppo leggera, di ultrà violenti che vengono demonizzati in ogni modo possibile, pur di far mantenere quel (dis)ordine delle cose stabilito dagli organi di potere in modo da mantenere il medesimo stesso. Raramente accadono infatti episodi come quello di domenica, dove appunto un calciatore colpisce l’arbitro, che in quel momento non rappresenta altro, guarda caso, che il potere.
A parte le circostanze che hanno portato a questo spiacevole episodio, senza tralasciare la buona fede che sicuramente avrà accompagnato il direttore di gara nel fischiare il rigore, è evidente che se presa da un altro punto di vista, e trascesa, l’aggressione in sé rientra in quella sorta di malcontento popolare e sociale per il divario che vi è tra chi comanda e la gente comune che onestamente cerca ogni giorno di andare avanti nonostante affronti e umiliazioni, non riuscendo mai a denunciare soprusi, torti o semplicemente quei malcostumi sociali che rappresentano quasi delle leggi non scritte, e che nelle nostre piccole comunità hanno una risonanza molto più grande. Quindi avviene che l’aggressione all’arbitro rappresenta un’avversità al potere e l’episodio del rigore è solo un pretesto che passa in secondo piano.
Probabilmente il calciatore avrà sbagliato, lasciamolo arrivare da solo alle sue conclusioni personalissime, però non condanniamo ipocritamente l’uomo (anche perché per paradosso si potrebbe finire addirittura col creare un personaggio quasi mistico con le caratteristiche del bullo di turno) ma cerchiamo piuttosto di comprenderne le ragioni sociali che inducono a certi gesti, e soprattutto non alziamoci a giudici, perché probabilmente quel gesto chissà quanti di noi lo avrebbero voluto fare o lo hanno invocato non solo su un campo di calcio ma nella vita in generale a un rappresentante qualsiasi del potere.
Di certo c’è che un episodio del genere dovrebbe farci porre delle domande su perché accadono certe cose e cercare di iniziare a costruire da subito tutti insieme le condizioni migliori affinché negli anni a venire non ci siano più figli e figliocci o padri padroni, ma che prevalga il senso di comunità che ci veda coinvolti e protagonisti tutti allo stesso modo, a prescindere dal rango sociale al quale ognuno di noi appartiene, e che così facendo lo porteremo nel tempo ad estinguersi, ristabilendo equilibrio e valori che il vento di quest’epoca si è portato via.